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Archive for September, 2012

Gli apprendisti stregoni della geopolitica

September 28th, 2012 Comments off
Le derive autoritarie dell’antimperialismo

Nel 2003, la seconda invasione dell’Iraq suscitò, probabilmente, la più grande manifestazione di dissenso nella storia dell’umanità, a nove anni di distanza, nonostante il proliferare dei conflitti, di quel fiume in piena non c’è più nessuna traccia. Esaminare le molteplici cause di questo riflusso rischia di essere un compito erculeo eppure, concentrandoci su un singolo aspetto del problema, possiamo sperare di fare chiarezza sulle cause di questa sconfitta.

Esiste, quantomeno nel contesto dell’Italia contemporanea, un impasse teorico piuttosto rilevante, che fa capo a come viene declinato, da alcuni, il tema dell’antimperialismo. Il migliore appiglio che possiamo avere per analizzare questo problema è la supposizione, ampiamente diffusa, che esista un rapporto di mutua esclusione fra libertà individuali, diritti civili, ed emancipazione collettiva. Abbiamo visto, a più riprese, questo ragionamento riaffiorare in relazione alla cosiddetta ‘primavera araba’: i sollevamenti contro Assad, Gheddafi, Mubarak e soci sarebbero lesivi di un equilibrio geopolitico locale che, con tutti i suoi difetti, avrebbe comunque il pregio di contenere l’espansione imperialista statunitense e sionista. In quest’ottica la rivendicazione di maggiori libertà civili e democratiche avrebbe, oggettivamente, funzione ‘controrivoluzionaria’, in altre parole questi concetti sarebbero non tanto una legittima aspirazione delle classi oppresse, quanto il risultato dell’impiego di “soft power”da parte della diplomazia statunitense.

Indubbiamente il concetto di “diritti civili” è estremamente problematico, soprattutto per chi proviene da un background politico libertario: la cornice entro cui si contiene la libertà individuale è troppo stretta e risente decisamente dell’influenza della cultura politica liberale, più preoccupata del rispetto formale delle regole democratiche che di una effettiva eguaglianza. Sarebbe, inoltre, stupido negare un coinvolgimento del dipartimento di stato americano nelle vicende summenzionate, indubbiamente i sommovimenti sociali ridisegnano una mappa più allineata agli interessi occidentali. Tuttavia non è questo il punto: la questione sociale non può e non deve essere ridotta ad un inane masturbazione mentale sull’atlante geopolitico, questo poiché, ‘soft power’ o no esiste una correlazione forte fra ‘deficit democratico’ e questione sociale: le rivendicazioni avanzate dalle masse popolari arabe hanno origine dalla marginalità economica prodotta dall’accentramento di potere politico e risorse economiche a vantaggio della classe dirigente locale, la partecipazione diretta alla vita politica non produce automaticamente eguaglianza sociale ma ne è un importante precondizione. Per queste ragioni, per un qualunque movimento che miri all’emancipazione sociale non ha alcun senso spendersi per contrastare il progetto imperiale per poi volgere lo sguardo altrove quando la produzione di sfruttamento e marginalità economica è opera delle elites locali.

Al di là del semplice buonsenso, esistono anche alcune ragioni di coerenza teorica per rifiutare la declinazione ‘geopolitica’ dell’antimperialismo. In primo luogo le stesse categorie di base della geopolitica non sono ‘neutre’ ma privilegiano la sicurezza degli stati sulle libertà individuali. La geopolitica moderna nasce, e bisogna ben tenerlo a mente, con le teorizzazioni delle destre nazionaliste inglesi di fine ottocento, successivamente diventerà il principale appoggio ideologico a vantaggio dell’espansione militare tedesca durante il secondo conflitto mondiale. Si tratta dunque di categorie elaborate in funzione dell’espansione imperialista, che difficilmente possono essere funzionali ad un progetto di rivalsa di classe di marca internazionalista.

In secondo luogo c’è il considerevole problema del doppio standard. Un comune corollario alla ‘declinazione geopolitica’ dell’antimperialismo recita come segue: data l’esistenza di due poli imperiali in conflitto, uno facente capo agli Stati Uniti, l’altro più o meno identificabile con l’asse Russia-Cina, sarebbe utile tutelare gli interessi del secondo poiché, ‘oggettivamente’, esso fungerebbe da protettore naturale di alcune esperienze ‘anticapitaliste’ quali il Venezuela di Chavez o la Cuba di Castro. Ammesso e non concesso che questi stati possano qualificarsi quali effettivi esempi di emancipazione di classe, resta sempre il problema di come rendere conto delle condizioni di oppressione riscontrabili al loro interno. Secondo una onorata tradizione filo-sovietica, per risolvere il problema basta semplicemente non parlarne o, al limite, razionalizzarlo come contraddizione passeggera, attribuibile non tanto alla degenerazione autoritaria del regime quanto alle pressioni esogene del blocco capitalista. In altre parole, per amore dell’idea del socialismo ci si priva dello strumento della critica dell’effettiva implementazione dello stesso, condannando l’esperienza rivoluzionaria ad una degenerazione burocratico-autoritaria. Questa posizione inoltre impedisce, per assunto di base, di osservare le fratture ai margini del blocco ‘amico’, marginalizzando cosi una serie di lotte che hanno la loro origine in una dinamica di oppressione imperialista. Basti solo l’esempio della Cecenia per tutti.

Inoltre, c’è da riconoscere che, anche se il concetto di diritti civili è stato utilizzato in chiave strategica dal Dipartimento di Stato americano, l’idea che esista un’identità perfetta fra l’immaginario dei diritti civili e gli interessi imperiali statunitensi è semplicemente ridicola. Esiste uno scollamento sostanziale fra queste due entità, tanto più che il concetto di diritti civili può venire usato per mettere in crisi il potere esattamente al suo centro. Sarebbe impossibile rendere conto delle polemiche attorno alla vicenda di wikileaks senza considerare tutto cio che è stato scritto e rivendicato attorno al diritto ad un informazione libera.

L’imbastardimento geopolitico dell’antimperialismo comporta rischi ben più concreti di quelli precedentemente menzionati. Ragionare con le categorie della geopolitica come stella polare, implica un profondo distacco da quello che è il senso comune del contesto in cui si vive ed in cui si dovrebbe fare politica, le rivendicazioni sociali immediate difficilmente si articolano su uno scacchiere internazionale, perciò tentare di spiegare le condizioni materiali di oppressione esclusivamente a partire dallo scacchiere militare internazionale difficilmente condurrà ad un progetto di trasformazione rivoluzionaria in grado di incidere radicalmente nel proprio contesto di appartenenza. Che la mistica della geopolitica sia causa o effetto dell’incapacità di incidere sul piano dei rapporti di forza reali poco cambia, poiché, di fatto, questa posizione è associata con una delega dell’azione politica. Infatti dal momento in cui il piano delle lotte viene portato dall’ambito sociale all’ambito dei rapporti di potenza non si può che operare una delega dell’azione politica nei confronti di uno stato. Di più: se le somme dei rapporti di forza si tirano a livello internazionale e se, come è stato suggerito con infelice metafora, le lotte di classe fra stati sussumono la lotta di classe propriamente intesa allora ne consegue che le lotte quotidiane o sono funzionali ad un conflitto fra entità che costituzionalmente, privilegiano l’auto-perpetuazione sulle libertà individuali, oppure sono condannate all’irrilevanza.

In definitiva l’utilizzo della geopolitica come bussola per guidare l’azione politica è una scelta totalmente fuorviante: questo poiché è una bussola che, in maniera assiomatica, punta obbligatoriamente nella direzione della creazione di rapporti di potenza tra stati. Si tratta di una concezione che sacrifica qualsiasi possibilità di autorganizzazione di classe sull’altare dei rapporti tra stati. Non è un caso che ora venga fatta propria dai figliocci dello stalinismo e del “socialismo in un solo paese” e nemmeno che si assista ad una convergenza di temi e linguaggio fra questi ed alcuni settori dell’estrema destra; si tratta di un riavvicinamento che è iniziato nelle prime fasi del movimento anti-globalizzazione ma che oggi, a differenza del passato, trova più cittadinanza a sinistra. Fortunatamente la realtà è più complessa di quanto appaia dai discorsi degli apprendisti stregoni della geopolitica e definitivamente non suscettibile di essere compressa in un modello interpretativo ossificato; per questa ragione, non è detto che scegliere le cause da appoggiare (anche qualora lo si facesse in buona fede) con in mano il bigino di geografia politica possa portare ad una maggiore riscatto di classe.

G.A. (si ringrazia lorcon per integrazioni e correzioni)

originariamente pubblicato su ‘Umanità Nova’ n 92 2012

Il grande saccheggio: ciclo edilizio ed espropriazione

September 27th, 2012 Comments off

falling building public domainDal 2007 ad oggi siamo stati letteralmente assaliti dalla narrazione della crisi, un fiume di parole ed interpretazioni ci ha condotto, anno dopo anno, in uno stato di sovraccarico informativo. In questa condizione, pur essendo perfettamente consapevoli della gravità della crisi, ci mancano gli strumenti per comprendere come la condizione di impoverimento che ci troviamo ad affrontare quotidianamente sia, strutturalmente, collegata all’accumulazione di profitto a vantaggio di pochi.

La casa e, più in generale il diritto ad abitare, rappresentano un punto critico per spiegare questa connessione: da un lato l’accesso ad un abitazione decente rappresenta uno dei diritti sociali fondamentali, dall’altro la recente finanziarizzarizzazione dell’economia ha trasformato il volto del settore edilizio; la casa, prima ancora di essere un diritto fondamentale, rappresenta un eccellente occasione di mietere profitti privati a spese della collettività.

Crescita dei prezzi, mutui e debito privato

Secondo i dati del cresme1 a partire dal 2000 assistiamo ad un incremento verticale dei prezzi degli immobili residenziali. Consideriamo come termine di paragone il 1992, ovvero l’apice del precedente ciclo immobiliare (e quindi precedente massimo storico nell’andamento dei prezzi). Fatto cento il prezzo del 1992, nel 2000 il prezzo di un immobile in un capoluogo di media dimensione ammonta al 107% del prezzo di riferimento, nel 2009 il prezzo arriva al 130% per poi ridiscendere nei due anni successivi. Più contenuto è l’aumento nei grandi capoluoghi, in questa tipologia di insediamento i prezzi raggiungono il loro massimo (124%) nel 2007, per poi ridiscendere.
A partire da questi dati due sono le considerazioni da fare. In primo luogo nel 2011 e 2012 assistiamo una riduzione dei prezzi ma che, come si può leggere dal grafico (cfr. img 1) e soprattutto dai precedenti cicli, probabilmente ci consegnerà un mercato in cui i prezzi si collocheranno comunque a livelli superiori rispetto al passato. In secondo luogo il nuovo ciclo speculativo-immobiliare si manifesta in un periodo di contrazione dei salari. Se alla fine degli anni 80 la quota salari, ovvero la parte di ricchezza creata dai processi produttivi che finisce ‘in tasca’ ai lavoratori dipendenti, era relativamente stabile, dopo il ’91 assistiamo ad un crollo drammatico di questo indicatore2. In altre parole, in questo momento, stiamo comprando o affittando case che costano molto di più con molti meno soldi.cicli immobiliari italiani 2011

Il risultato è facilmente intuibile: una crescita sostenuta del debito privato che viaggia di pari passo con la crescita del mercato dei mutui. Secondo i dati Bankitalia3 Il valore totale dei mutui immobiliari emessi dalle banche, è più che raddoppiato nell’arco 2001-2010. Sempre nel 2010, secondo i dati Eurostat, sulle famiglie italiane gravava, in media, un debito pari al 65% del reddito annuale, come si può vedere dal grafico (cfr img 2), nel 2000 questo rapporto era dimezzato. Con ogni probabilità buona parte di questo colossale aumento del debito privato ha contribuito al finanziamento dell’ultima bolla immobiliare.

Contemporaneamente, c’è da considerare anche un secondo problema, il ciclo edilizio 2000/2008 ha comportato un consumo di suolo senza precedenti. Secondo Legambiente, nel solo 2011 è stata urbanizzata un’area di 500 km2, pari a tre volte l’area edificata del comune di Milano. All’espropriazione economica si aggiunge, quindi anche l’espropriazione ecologica, con tutto quello che ne consegue, in termini di malattie respiratorie, tumori e patologie cardiache.

Il ruolo dello Stato

Ovviamente tutto questo avviene senza la bencheminima tutela dell’abitante da parte del settore pubblico: l’edilizia popolare è data per dispersa dalla fine degli anni ’70 e l’edilizia a canone convenzionato agonizza fra le grinfie delle coperative edilizie, interessate a tutto tranne che a fornire alloggi ad una cifra abbordabile. Aggravando ulteriormente la situazione, lo Stato continua a pompare soldi nel settore delle costruzioni, finanziando, praticamente a fondo perduto mega progetti di dubbia utilità, i quali sono inoltre afflitti da una cronica mancanza di trasparenza4.

Facendo un passo indietro ed osservando il fenomeno nella sua complessità, possiamo renderci conto di come un settore chiave dell’economia italiana sia stato, di fatto, garantito dallo Stato almeno da tre punti di vista. In primo luogo tramite la spesa per le infrastrutture. In secondo luogo venendo meno a quello che dovrebbe essere il suo mandato a garantire una dignitosa qualità della vita. Infine agendo sulle amministrazioni locali, in maniera da favorire il comparto edilizio.

Seguendo l’andamento dei bilanci comunali nel corso dell’ultimo trentennio possiamo renderci conto di come questo sia avvenuto. Secondo i dati Istat5 negli anni 80, in media, i comuni si finanziavano per il 30% emettendo imposte locali e, per il restante 70%, mediante trasferimenti da Stato e regioni. Nel corso degli anni 2000 questa proporzione si è ribaltata, il 70% dei finanziamenti deriva dalle imposte locali e solo il 30% dai trasferimenti. Nel corso degli anni 2000 è anche cresciuto il debito delle amministrazioni locali, se nel 2004 il debito combinato di comuni e provincie ammontava al 1.6% del pil, questa cifra in soli 7 anni è quesi raddoppiata, infatti nel 2011 il solo debito dei comuni ammontava al 3.1% del pil.

debito come proporzione del reddito

Blocco edilizio, accumulazione per spoliazione

Che esista un collegamento forte fra entità dei trasferimenti e debolezza dell’amministrazione locale nei confronti degli speculatori è cosa riconosciuta in letteratura specializzata6: un’amministrazione dipendente dalle entrate locali (e magari indebitata) difficilmente potra permettersi di rinuciare alle entrate fiscali aggiuntive prospettate da nuovi progetti immobiliari; in particolare non potrà permettersi di fare a meno degli oneri di urbanizzazione, i quali svolgono un ruolo sempre più importante nel bilancio dei comuni.

Ciò che possiamo osservare non è il funzionamento, ‘naturale’ degli attori di mercato ma assomiglia più ad un mercato ‘garantito’ da un nuovo ‘blocco edilizio’7: una rete di attori pubblici e privati, uniti dallo scopo di sostenere la redditività del settore edilizio, se necessario creando la domanda per ciò che il mercato vende. Da questo punto di vista, l’assenza di nuovi, significativi, progetti di edilizia popolare, le costrizioni fiscali sui comuni e la sovvenzione praticamente a ‘fondo perduto’ dei progetti di ‘ingegneria faraonica’ assumono una connotazione più complessa della semplice ‘disorganizzazione con corruzione diffusa’, categoria con cui siamo abituati a leggere questi fenomeni.

Da parte di questo intero blocco di attori c’è stato un tentativo, pienamente riuscito, di espandere la sfera del mercato ai danni della sfera della riproduzione. Ricollegandoci al discorso fatto in Sottotraccia n4, possiamo affermare che si tratta di un fenomeno di accumulazione per spoliazione: un mercato maturo ha necessità di espandersi e per farlo necessità di creare domanda tramite la canellazione di diritti un tempo garanti di equità sociale e redistribuzione, in questo caso il diritto all’abitare ed il diritto a vivere in un ambiente non tossico.

In questo ed in altri casi, se si vuole elaborare un contributo teorico utile a combattere l’egemonia politica neoliberale è urgente riuscire ad affinare e diffondere concetti politici ed analisi empiriche che possano permettere di ricollegare la crisi individualmente vissuta con l’esperienza della crisi economica. Solo in questo modo possiamo avere la speranza di elaborare una proposta politica sufficientemente fondata e radicale ed in grado riconquistare un’emancipazione sociale che, altrimenti, rischia di venire schiacciata sotto il tallone del progetto neoliberale.

1Fonte: Cresme, osservatorio valori immobiliari

2Fonte: lavoce.info 28-08-10 “la slavina dei redditi da lavoro dipendente”

3Bollettino statistico Bankitalia 2001-2011

4Vedi: Cemento d’oro, Sottotraccia n 7

5 Istat Rilevazione dei conti consuntivi dei Comuni e delle Province

6 Savitch Kantor 2002 Savitch Kantor Vicari 1997, Molotch 1999

7 Valentino Parlato 1974 “il blocco edilizio”

originariamente pubblicato su sottotraccia.org