Gli apprendisti stregoni della geopolitica
Nel 2003, la seconda invasione dell’Iraq suscitò, probabilmente, la più grande manifestazione di dissenso nella storia dell’umanità, a nove anni di distanza, nonostante il proliferare dei conflitti, di quel fiume in piena non c’è più nessuna traccia. Esaminare le molteplici cause di questo riflusso rischia di essere un compito erculeo eppure, concentrandoci su un singolo aspetto del problema, possiamo sperare di fare chiarezza sulle cause di questa sconfitta.
Esiste, quantomeno nel contesto dell’Italia contemporanea, un impasse teorico piuttosto rilevante, che fa capo a come viene declinato, da alcuni, il tema dell’antimperialismo. Il migliore appiglio che possiamo avere per analizzare questo problema è la supposizione, ampiamente diffusa, che esista un rapporto di mutua esclusione fra libertà individuali, diritti civili, ed emancipazione collettiva. Abbiamo visto, a più riprese, questo ragionamento riaffiorare in relazione alla cosiddetta ‘primavera araba’: i sollevamenti contro Assad, Gheddafi, Mubarak e soci sarebbero lesivi di un equilibrio geopolitico locale che, con tutti i suoi difetti, avrebbe comunque il pregio di contenere l’espansione imperialista statunitense e sionista. In quest’ottica la rivendicazione di maggiori libertà civili e democratiche avrebbe, oggettivamente, funzione ‘controrivoluzionaria’, in altre parole questi concetti sarebbero non tanto una legittima aspirazione delle classi oppresse, quanto il risultato dell’impiego di “soft power”da parte della diplomazia statunitense.
Indubbiamente il concetto di “diritti civili” è estremamente problematico, soprattutto per chi proviene da un background politico libertario: la cornice entro cui si contiene la libertà individuale è troppo stretta e risente decisamente dell’influenza della cultura politica liberale, più preoccupata del rispetto formale delle regole democratiche che di una effettiva eguaglianza. Sarebbe, inoltre, stupido negare un coinvolgimento del dipartimento di stato americano nelle vicende summenzionate, indubbiamente i sommovimenti sociali ridisegnano una mappa più allineata agli interessi occidentali. Tuttavia non è questo il punto: la questione sociale non può e non deve essere ridotta ad un inane masturbazione mentale sull’atlante geopolitico, questo poiché, ‘soft power’ o no esiste una correlazione forte fra ‘deficit democratico’ e questione sociale: le rivendicazioni avanzate dalle masse popolari arabe hanno origine dalla marginalità economica prodotta dall’accentramento di potere politico e risorse economiche a vantaggio della classe dirigente locale, la partecipazione diretta alla vita politica non produce automaticamente eguaglianza sociale ma ne è un importante precondizione. Per queste ragioni, per un qualunque movimento che miri all’emancipazione sociale non ha alcun senso spendersi per contrastare il progetto imperiale per poi volgere lo sguardo altrove quando la produzione di sfruttamento e marginalità economica è opera delle elites locali.
Al di là del semplice buonsenso, esistono anche alcune ragioni di coerenza teorica per rifiutare la declinazione ‘geopolitica’ dell’antimperialismo. In primo luogo le stesse categorie di base della geopolitica non sono ‘neutre’ ma privilegiano la sicurezza degli stati sulle libertà individuali. La geopolitica moderna nasce, e bisogna ben tenerlo a mente, con le teorizzazioni delle destre nazionaliste inglesi di fine ottocento, successivamente diventerà il principale appoggio ideologico a vantaggio dell’espansione militare tedesca durante il secondo conflitto mondiale. Si tratta dunque di categorie elaborate in funzione dell’espansione imperialista, che difficilmente possono essere funzionali ad un progetto di rivalsa di classe di marca internazionalista.
In secondo luogo c’è il considerevole problema del doppio standard. Un comune corollario alla ‘declinazione geopolitica’ dell’antimperialismo recita come segue: data l’esistenza di due poli imperiali in conflitto, uno facente capo agli Stati Uniti, l’altro più o meno identificabile con l’asse Russia-Cina, sarebbe utile tutelare gli interessi del secondo poiché, ‘oggettivamente’, esso fungerebbe da protettore naturale di alcune esperienze ‘anticapitaliste’ quali il Venezuela di Chavez o la Cuba di Castro. Ammesso e non concesso che questi stati possano qualificarsi quali effettivi esempi di emancipazione di classe, resta sempre il problema di come rendere conto delle condizioni di oppressione riscontrabili al loro interno. Secondo una onorata tradizione filo-sovietica, per risolvere il problema basta semplicemente non parlarne o, al limite, razionalizzarlo come contraddizione passeggera, attribuibile non tanto alla degenerazione autoritaria del regime quanto alle pressioni esogene del blocco capitalista. In altre parole, per amore dell’idea del socialismo ci si priva dello strumento della critica dell’effettiva implementazione dello stesso, condannando l’esperienza rivoluzionaria ad una degenerazione burocratico-autoritaria. Questa posizione inoltre impedisce, per assunto di base, di osservare le fratture ai margini del blocco ‘amico’, marginalizzando cosi una serie di lotte che hanno la loro origine in una dinamica di oppressione imperialista. Basti solo l’esempio della Cecenia per tutti.
Inoltre, c’è da riconoscere che, anche se il concetto di diritti civili è stato utilizzato in chiave strategica dal Dipartimento di Stato americano, l’idea che esista un’identità perfetta fra l’immaginario dei diritti civili e gli interessi imperiali statunitensi è semplicemente ridicola. Esiste uno scollamento sostanziale fra queste due entità, tanto più che il concetto di diritti civili può venire usato per mettere in crisi il potere esattamente al suo centro. Sarebbe impossibile rendere conto delle polemiche attorno alla vicenda di wikileaks senza considerare tutto cio che è stato scritto e rivendicato attorno al diritto ad un informazione libera.
L’imbastardimento geopolitico dell’antimperialismo comporta rischi ben più concreti di quelli precedentemente menzionati. Ragionare con le categorie della geopolitica come stella polare, implica un profondo distacco da quello che è il senso comune del contesto in cui si vive ed in cui si dovrebbe fare politica, le rivendicazioni sociali immediate difficilmente si articolano su uno scacchiere internazionale, perciò tentare di spiegare le condizioni materiali di oppressione esclusivamente a partire dallo scacchiere militare internazionale difficilmente condurrà ad un progetto di trasformazione rivoluzionaria in grado di incidere radicalmente nel proprio contesto di appartenenza. Che la mistica della geopolitica sia causa o effetto dell’incapacità di incidere sul piano dei rapporti di forza reali poco cambia, poiché, di fatto, questa posizione è associata con una delega dell’azione politica. Infatti dal momento in cui il piano delle lotte viene portato dall’ambito sociale all’ambito dei rapporti di potenza non si può che operare una delega dell’azione politica nei confronti di uno stato. Di più: se le somme dei rapporti di forza si tirano a livello internazionale e se, come è stato suggerito con infelice metafora, le lotte di classe fra stati sussumono la lotta di classe propriamente intesa allora ne consegue che le lotte quotidiane o sono funzionali ad un conflitto fra entità che costituzionalmente, privilegiano l’auto-perpetuazione sulle libertà individuali, oppure sono condannate all’irrilevanza.
In definitiva l’utilizzo della geopolitica come bussola per guidare l’azione politica è una scelta totalmente fuorviante: questo poiché è una bussola che, in maniera assiomatica, punta obbligatoriamente nella direzione della creazione di rapporti di potenza tra stati. Si tratta di una concezione che sacrifica qualsiasi possibilità di autorganizzazione di classe sull’altare dei rapporti tra stati. Non è un caso che ora venga fatta propria dai figliocci dello stalinismo e del “socialismo in un solo paese” e nemmeno che si assista ad una convergenza di temi e linguaggio fra questi ed alcuni settori dell’estrema destra; si tratta di un riavvicinamento che è iniziato nelle prime fasi del movimento anti-globalizzazione ma che oggi, a differenza del passato, trova più cittadinanza a sinistra. Fortunatamente la realtà è più complessa di quanto appaia dai discorsi degli apprendisti stregoni della geopolitica e definitivamente non suscettibile di essere compressa in un modello interpretativo ossificato; per questa ragione, non è detto che scegliere le cause da appoggiare (anche qualora lo si facesse in buona fede) con in mano il bigino di geografia politica possa portare ad una maggiore riscatto di classe.
G.A. (si ringrazia lorcon per integrazioni e correzioni)
originariamente pubblicato su ‘Umanità Nova’ n 92 2012
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